“Nessun uomo è un’isola”

«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso;

ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto.

Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse

un promontorio, come se venisse a mancare

una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa.

La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché

io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai

per chi suona la campana: suona per te». John Donne

L’isola come paradiso perduto da ritrovare o utopia da costruire è presente a lungo nella storia del pensiero, oggi si parla di isole galleggianti (anche “fai da te”) come una specie di “covo della libertà”[1].

Un’ipotetica libertà totale, l’assenza pressoché assoluta di limiti portano ad un individualismo senza confini e fanno cadere le coordinate per un percorso comune di tutta la collettività.

Non dimentichiamo che tante isole furono scelte per costruirvi carceri, per impedire fughe e contatti, e proprio questo è ciò che succede a chi se ne costruisce una per proteggersi: la reclusione.

Il progetto neoliberista, la globalizzazione in veste economica diffondono un senso di insicurezza e precarietà in ogni ambito esistenziale, la soluzione offerta è la chiusura nel privato creando così ostacoli alla ricerca di uscite collettive.

Propaganda, strumentalizzazione, disinformazione spingono a temere il presente e, soprattutto, impediscono di immaginare un “mondo diverso” per il futuro.

Si rifiuta ogni confronto, ci si isola sempre più, ci si lamenta sempre più, ma non è mettendo insieme indifferenza, risentimento, rabbia che si crea un gruppo in grado di porsi come forza politica per affrontare le varie problematiche!

Si semina sospetto, si creano nemici e capri espiatori, si diffonde timore per incontri e proposte che escono dai solchi dell’ovvio e della routine… ne deriva un clima di allarme e paura che chiude in se stessi, in un mondo dai confini sempre più stretti.

Così isolati e diffidenti, si cercano risposte individuali – il “si salvi chi può” – fuggendo da spazi comuni, da dibattiti pubblici, ritenuti inutili e inefficaci per risolvere i problemi personali; si diffonde uno stato endemico di insicurezza e smarrimento che spinge a sognare uno status di “isola”, rifiutando il “mare” della società e della comunità; l’affermazione di Margaret Thatcher: «non esiste una cosa come la società, esistono singoli uomini e donne», rischia di divenire reale?

La società si frantuma in tanti microcosmi che danno l’illusione di sicurezza, di libertà, di scelta, in realtà in balia di interessi e decisioni del sistema economico-politico che trova una resistenza frastagliata, confusa, minoritaria.

Lo spazio pubblico (e non solo dei social[2]) sembra esser divenuto il luogo dove si esibiscono fatti privati, ma se non c’è, se non si ricrea una socialità condivisa si cade nell’isolamento, nel rifiuto a tutto ciò che è “fuori”; la sfera pubblica viene invasa dalla sfera privata, in nome di un’ipotetica libertà assoluta o, all’opposto, di una privacy oggi inesorabilmente compromessa.

Si creano muri sempre più alti tra il “là fuori” e il “cortile di casa mia”…  muri materiali per delimitare il proprio territorio o ideali per “difendersi” dagli altri; muri di cemento, di convinzioni, di arroganza, di pregiudizi, di ignoranza.

In America Latina, nei gruppi impegnati per una radicale nuova visione del mondo, si afferma: «Al “se non c’è per tutti, che ci sia almeno per me”, si deve sostituire il “perché ci sia anche per me, ci deve essere per tutti”, questa è l’unica possibilità di un cambiamento radicale del sistema attuale».

Dalla cultura del tempo a misura d’uomo, della conservazione, dell’apprendimento da chi e da ciò che ci ha preceduto, siamo passati alla cultura della rottura con quanto appartiene ad un passato “superato” e da cancellare, alla ricerca del tutto e in fretta e con il minimo sforzo; ma la denuncia della continuità tagliando “zavorre inutili” che, si dice, appesantiscono il passo, lascia senza punti di riferimento, apre la porta al disimpegno, all’indifferenza, alla superficialità su cui si tenta di costruire la propria “nuova” esistenza: non c’è più spazio per utopie, ideali, sogni, soprattutto se, per la loro complessità, gli obiettivi appaiono difficili e lontani da raggiungere.

Poco a poco si perde l’irrequietezza del sapere, il gusto di scegliere, il dubbio per spingerci a ricercare e conoscere, lo spirito di indignazione e ribellione contro strumentalizzazioni, imposizioni, ingiustizie.

Nel vortice del consumismo e del conformismo della “modernità liquida”, si cerca la successione di esperienze legate alla moda del momento, al consumo immediato, a credere in qualcosa destinato a crollare in tempi brevi, brevissimi. La vita è un correre imposto dalle varie mode con scelte casuali, superficiali, effimere e, di fatto, individualistiche.

Sembra che “per essere felici” si debba iniziare sempre da capo perché tutto è percepito come transitorio, la “durata”, considerata sino a poco fa un valore, ha lasciato la strada al disfarsi di tutto velocemente per far posto a ciò che appare nuovo e migliore come risposta a ipotetici bisogni; siamo così giunti alla cultura dello scarto, del rifiuto che ha finito per allargarsi da aspetti materiali a valori etici, culturali, spirituali sino ad arrivare alle persone, ai “nessuno” del mondo globale, masse superflue e inutili, da “gettar via” come un oggetto che diviene obsoleto in un baleno.

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