La laicità e Norberto Bobbio

Il libro La persona laica. Norberto Bobbio nel Novecento filosofico, recentemente uscito a firma di Cesare Pianciola per Biblion Edizioni, presenta in realtà un orizzonte che va ben oltre la laicità; sia pur latamente intesa. Soltanto uno dei suoi quattro capitoli, infatti, mostra riferimenti a questa e d’altro canto i testi di Bobbio, che in appendice vengono riportati, toccano temi ben diversi giacché riguardano fenomenologia, esistenzialismo, empirismo.

Immagino la risposta, che Pianciola mi darebbe: è però laico cioè su un piano di dialogo, lo spirito di tali testi. Ma a me pare che non basti: a questo punto, ogni affermazione fatta non con toni da ex cathedra diventa un’affermazione laica! L’aggettivo mi parrebbe invece pertinente per un testo che proprio uno spirito, del genere, avesse per oggetto: come la Filosofia del dialogo, di Guido Calogero.

Nel libro di Pianciola pertanto mi concentrerò, sul secondo capitolo: che ha per titolo “Laicità, religione, religiosità” e che, come gli altri capitoli, è ricco di brani tratti dagli scritti di Bobbio. Alle posizioni del quale farò riferimento procedendo per cerchi concentrici e partendo dal cerchio più ristretto, cioè da come ci si colloca rispetto alla religione. Egli si dichiara “né ateo né agnostico” e (aggiunge) in quanto “uomo di ragione e non di fede so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi”. Insomma, al proprio rapporto con la dimensione religiosa Bobbio non assegna un’etichetta precisa ed egli sfugge alla tradizionale ripartizione, fra persone credenti, agnostiche, non credenti. Anche se, mi permetterei di osservare, l’etichetta di agnostico parrebbe -per un “uomo… non di fede”- piuttosto plausibile: di fronte ad un “mistero”.

In un cerchio, più ampio vale a dire su un piano non personale ma interpersonale, Bobbio si sofferma sulla laicità ed afferma: “l’unico principio che si può considerare propriamente laico è quello della tolleranza”, secondo il quale “la molteplicità degli universi morali” comporta “una pacifica convivenza tra essi”. Bobbio individua, di conseguenza, come sola distinzione possibile in materia di laicità la distinzione fra persone tolleranti e intolleranti: due categorie (chiarisce) di ciascuna delle quali possono far parte, sia persone con fede religiosa sia persone senza.

Mi chiedo però se la laicità, una volta che venga ridotta a tolleranza, non rischi di diventare un ente inutile: sarebbe quest’ultima infatti, il concetto che conta. D’altra parte sappiamo che la tolleranza può rispetto alla religione intendersi, in vari modi: nella nostra penisola ecco che lo Statuto albertino indicava la religione cattolica come “sola religione dello Stato” ed aggiungeva che “gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”.

Il riferimento, allo Statuto albertino, mi porta al terzo e più ampio cerchio: quello delle leggi, delle istituzioni. Ebbene tale cerchio va considerato, quanto a Bobbio, solamente per rilevare che egli è assai restio a trattarne. Eppure nel discorso politico abituale sentiamo sì parlare di persone laiche, ma anche e forse più spesso di Stato laico; il quale ha come significato classico un’uguale libertà di fondo, per tutte le posizioni rispetto alla religione (è l’uguaglianza, appunto, l’ingrediente che resta in ombra nel concetto di tolleranza e che rende piena la libertà). Mentre, come dirimpettaio, ecco il significato classico dello Stato confessionale: una religione si trova in posizione di netta prevalenza e tale prevalenza si può, in termini meno paludati e più correnti, indicare come clericalismo.

Ebbene, su tale tipo di questioni le affermazioni di Bobbio risultano, nel libro di Pianciola, assai scarse; come ovvia conseguenza dei confini entro cui egli intende la laicità. D’altro canto, per situazioni che invece indichino la prevalenza di cui ho appena parlato, vediamo come a termini che la designano Bobbio ricorra una volta sola (se non mi sbaglio): deplorando l’”oscurantismo clericale” del quale, nell’Ottocento, fu oggetto Carlo Catteneo. Aggiungo, che nella Prefazione al libro di Nello Morra I cattolici e lo Stato -Pianciola la cita, ma non nel brano di cui sto per dire- Bobbio sembra provare un certo fastidio per la contrapposizione oggetto di questo mio terzo “cerchio” e sembra porsi au dessus de la mêlée: giacché parla, di “cattolici e laici sempre pronti ad azzuffarsi” fra loro. Qui, evidentemente, quanto a laici non si tratta di quelli che egli considerava a proposito di tolleranza e fra i quali rientrano, se tolleranti, pure i cattolici; ma di coloro che esprimono istanze laiche, nel senso di Stato laico.

Per concludere ci tengo a dire che, se mi si chiedesse di indicare i libri di saggistica che più hanno contato nella mia vita, la raccolta di scritti di Bobbio pubblicata nel 1955 sotto il titolo “Politica e cultura” sarebbe senza dubbio, ai primi posti. Sia per il profilo di maître à penser, con cui Bobbio si propone. Sia per la polemica contro un marxismo di tipo dogmatico (incarnato dal PCI), che caratterizza vari di questi scritti. Ma proprio l’impegno così lucido di Bobbio, contro tale dogmatismo, dà risalto al suo scarso interesse nei confronti del dogmatismo cattolico e delle sue conseguenze per le istituzioni italiane.

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