Non è esattamente la prima volta

Era già successo lo scorso anno sulla costa adriatica romagnola. Ci sono gruppi di ragazzi nordafricani che nei weekend sbarcano dai treni e assaltano con atti vandalici le spiagge, i lungomare, le strade dei centri storici delle cittadine e, talvolta, non si fanno mancare le mani addosso alle ragazze. Ma, come per i fatti di Peschiera, gli esponenti della sinistra si uniscono al coro per chiedere immediati interventi punitivi. A destra di più, sparano il solito: “Tornate ai vostri Paesi!”.

Nessuna analisi del fenomeno, nessuna riflessione approfondita. Nessuna. Ne è un esempio il post su Facebook del deputato Pd Emanuele Fiano: “Storia bruttissima che non può lasciarci indifferenti. Gli autori delle molestie devono essere presi e giudicati secondo la legge, e le ragazze aiutate a metabolizzare il trauma.” Punto. Cosa vuol dire “metabolizzare il trauma” lo sa soltanto lui.

Ecco il titolo di un articolo:” Peschiera, si indaga per violenza sessuale. La sindaca: si dimetta chi ci ha lasciati soli (La Repubblica,7 giugno); Follia e molestie, viaggio tra i ragazzi del Garda “Rabbia e isolamento ma non siamo tutti così” (La Stampa, 7 giugno).

C’è anche chi fa notare che per gli alpini a Rimini si è cercato di minimizzare e ridurre i fatti delle molestie a tradizionale goliardata, mentre nel caso dei giovani nordafricani si ingigantisce e, addirittura si approfitta per sparare, metaforicamente, su tutti gli immigrati. Vero: se le molestie sessuali riguardano maschi autoctoni, la comprensione, previa minimizzazione, è pronta e sollecita.

Interessante l’articolo di Karima Moual (La Stampa, 7 giugno): “La rabbia dei figli di immigrati ‘Gli italiani ci hanno isolato per questo ci sentiamo africani’”. La Moual è nordafricana, musulmana. Infatti viene così apostrofata da un giovane nordafricano intervistato: “Ma non ti guardi intorno sorella? Siamo solo la feccia per loro (inteso gli italiani, ndr), e da dentro queste fatiscenti palazzine sono in pochi a permettersi di sognare: fare piccole rapine, spacciare, per molti ragazzi è ormai normale.”

I giovani – dai sedici a oltre i venti – che si erano dati appuntamento il 2 giugno a Peschiera su TikTok, vestono magliette griffate, anelli dorati, canotte e ritengono Facebook un social per vecchi. Come tutti gli altri coetanei. Erano arrivati a Peschiera da Milano, da Brescia e da altre città dove abitano quartieri fatiscenti e dove sono concentrate le famiglie egiziane, marocchine, pakistane, indiane… Frequentano, magari soltanto per alcuni anni, gli istituti professionali e raramente fanno gruppo con gli italiani di origine. Soprattutto le ragazze si mescolano con difficoltà alle coetanee, non tanto perché respinte a causa del velo, piuttosto per le “raccomandazioni” dei genitori della comunità, degli imam, che spesso descrivono “gli occidentali” come privi di valori morali e l’intera società decadente. Ma anche per evitare innamoramenti che potrebbero farle deviare verso matrimoni misti, non accettati dall’Islam, a meno che il futuro consorte non si converta. In alcune etnie anche perché vige ancora il matrimonio combinato e imposto.

Però ha ragione K. Moual: si straparla di integrazione, ma si sono favoriti gli insediamenti familiari degli stranieri nei quartieri abbandonati dagli italiani perché ormai fatiscenti. Un giovane intervistato: “Ma di noi non ha mai avuto pietà nessuno, dallo stesso momento in cui ci hanno sbattuti nei peggiori quartieri, possibilmente ammassando tutti insieme, per identificarci ancora meglio come immigrati, africani a vita. Alla fine ce l’hanno fatta.”

E quindi il disagio ora sempre di più si manifesta nelle seconde e terze generazioni, generando aggregazioni gruppali che sgangheratamente occupano altri spazi, quelli dei benestanti bianchi; almeno per alcune frazioni di tempo, giusto per riuscire a sfogare la rabbia.

Le bocche politiche si sono sempre riempite di ideali e progetti di integrazione, ma elargendo con parsimonia i finanziamenti, per esempio, per corsi di alfabetizzazione nella lingua italiana per le madri. Ignorando però che in alcune etnie alle donne non è permesso uscire di casa senza essere accompagnate da un parente.

Anni fa, in occasione di un’intervista a giovani donne musulmane al “centro culturale” (la moschea) di via Corsica a Brescia – era un sabato – attraversando i locali, vidi donne non giovani (mamme e nonne) che parlavano a gruppetti nella loro sala di preghiera. Era l’unico giorno della settimana di uscita, per trovarsi con altre “sorelle” e parlare nella propria lingua.

La Moual sottolinea che questi giovani sono in pieno conflitto identitario con l’Italia, Paese dove sono cresciuti e nati. Ma perché oltre a dedicarsi, come a Peschiera e altrove, a furti e atti vandalici talvolta molestano sessualmente le coetanee “bianche”?

Perché non sono, come la Moual, delle “sorelle”. Perché sono le donne “dei bianchi”.

A Cinisello Balsamo in provincia di Milano, è stata organizzata la finale del concorso “Regina con Hijab”. Nel comunicato stampa per la finale del concorso si legge: Regina con il Hijab – Sii l’esempio”, organizzato da Assia Belhadj, il primo in Italia e in Europa che tratta dell’argomento velo.

Come detto da Assia, questo non è un concorso che eleggerà la classica “miss” vista solo nella bellezza, ma sarà qualcosa di diverso, più attinente allo stile di vita modesto della nostra religione. Verranno valutate le caratteristiche di vestibilità del velo, dell’intero abito e della modestia nell’indossarlo.

Una ben evidente volontà di contrapposizione al modo di vestire delle donne giovani occidentali a base di ombelichi scoperti, pance esposte, jeans strappati, insomma un abbigliamento che sottolinea le forme femminili. Tutto il contrario della riservatezza, del pudore, della modestia che le “sorelle” ostentano a base di capo coperto e abiti larghi.

Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto, nel suo libro appena pubblicato Il prezzo del velo, la guerra dell’islam contro le donne (ed. Feltrinelli), racconta come in Iran la campagna di moralizzazione colpevolizza le donne attribuendo loro “la responsabilità dei soprusi che esse stesse subiscono: la maggior parte delle violenze colpisce le donne ‘malvelate’, sostiene difatti la propaganda del regime”.

Una mentalità, una cultura, trasversale all’Islam sunnita e sciita e, in fondo in fondo retaggio patriarcale, non ancora scomparso anche nel Paese Italia. Gli uomini si eccitano e non sanno, non possono controllarsi di fronte a corpi femminili esibiti. Questo ha dichiarato un sindaco del Nord Est in difesa degli alpini che a Rimini, durante la loro giornata nazionale hanno molestato le donne per le strade.

Con una differenza però: non si può più invocare il Dio cristiano per imporre alle donne un abbigliamento non attraente, “non modesto”, non “peccaminoso”.

I giovani di seconde e terze generazioni avrebbero bisogno di politiche coraggiose a cominciare dalla possibilità di accedere alla cittadinanza non dopo un iter lungo e pesante, e a tutte i gradi di istruzione. Ma occorrerebbe – soprattutto da parte della sinistra – affrontare il nodo del relativismo culturale che, scrive Sgrena, “di fatto considera i valori più arretrati e le interpretazioni più fondamentaliste dell’Islam (…) come i più ‘autentici”, agevolando così il separatismo religioso-etnico e le sue conseguenze inevitabili nei comportamenti individuali e collettivi.

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